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Bioenergetica e vitalità

Bioenergetica e vitalità

Partire dalle esperienze corporee

Conferenza di Flavio Panizza a Milano, 12 ottobre 2004

Flavio PanizzaPubblico questo testo, frutto della trascrizione da me fatta di una conferenza tenuta dal psicoterapeuta bioenergetico Falvio Panizza a Milano il 12 ottobre 2004, organizzata dall’Associazione Abipso di cui allora facevo parte, perché è di grandissima attualità.

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Una delle caratteristiche del parlare di bioenergetica è legata al fatto di parlare delle proprie esperienze. Qualcuno ha detto: “Pensavo di conoscere, poi facendo l’esperienza ho visto che emerge tutto un altro mondo” ed è l’aspetto più affascinante del lavoro, non solo in bioenergetica ma in qualunque terapia o lavoro su di sé, dove lo scopo non è quello di risolvere dei sintomi che indicano un disagio, ma di approfondire il contatto con se stessi per arrivare a una trasformazione. Perché il cammino che si intraprende in bioenergetica non è solo una questione teorica: il fatto fondamentale è che si arriva al nodo di certe questioni di base e si trova il modo, il coraggio e il clima adatto per affrontare i nostri ‘mostri’, quei fantasmi che a causa della nostra esperienza di vita giacciono nel nostro mondo interiore e provocano i nostri comportamenti di tipo nevrotico. E uso la parola nevrotico in senso generale, senza riferimento a nevrosi particolari. È un comportamento che avvertiamo come ‘disturbato’ e la cui cartina di tornasole è una insoddisfazione di fondo, che apparentemente non ha giustificazioni. Si sta male, si sta bene, si sta di nuovo male, si sta di nuovo bene, ma quel bene non è mai sicuro né garantito. C’è sempre dietro l’angolo qualcosa che non funziona, e occorre vedere cos’è.

Nel discorso di Luciano Marchino, durante la sua conferenza del 31 marzo, mi hanno colpito alcune cose che vorrei sviluppare. Prima di tutto il ‘sentire il corpo’. La bioenergetica è soprattutto una forma concreta di approccio al corpo, al fine di scoprire i nostri fantasmi e, dietro, la nostra innocenza originaria. La parola ‘innocenza’ deriva dal latino e vuol dire non nuocere, non fare del male. Indica, in senso positivo, una situazione di benessere, di giocosità, una disposizione positiva verso la vita. Possiamo rintracciarla soprattutto recuperando quelle esperienze primordiali a partire dalle quali siamo in cammino. Essere corpo non è una questione teorica: tutti l’abbiamo fin dall’inizio, ce lo portiamo appresso a volte con fatica, a volte lo troviamo affascinante, a volte lo vorremmo diverso, ma è sempre in nostra compagnia. Sentire il corpo per arrivare a recuperare quella dimensione originaria ha a che fare con esperire alcune situazioni-tipo che all’origine abbiamo vissuto. Per questioni legate ai rapporti in seno alla famiglia abbiamo dovuto accantonare questa dimensione originaria, rimuoverla, chiuderla o addirittura viverla con una specie di senso di colpa. Dal punto di vista culturale c’è una relazione tra quelli che sono i nostri traumi originari (tutti ne abbiamo, anche coloro che sono abbastanza esperti perché hanno intrapreso un lavoro su di sé) e la storia dell’umanità. La microstoria personale in qualche modo si ricalca sulla storia universale.

A proposito dell’innocenza, nel libro che fonda la nostra civiltà giudaico-cristiana, la Bibbia, si parla di un’esperienza paradisiaca iniziale dalla quale si è cacciati in seguito a una ‘colpa’, al cosiddetto peccato originale. Il paradiso nella Bibbia è presentato come un mito, una fiaba: nessuno crede che siano esistiti davvero Adamo ed Eva, la loro storia è un mito, una figurazione allegorica per presentare una verità profonda. Al di là quindi del racconto letterale proviamo a vedere cosa c’è dietro il peccato originale. La Bibbia dice che riguardava il divieto di mangiare la mela, cioè il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Si parlava della mela probabilmente perché all’epoca in cui quel testo fu scritto rappresentava uno dei frutti più pregiati della regione mediorientale.

Non mangiate di quel frutto, dunque, perché altrimenti – suggerisce il serpente a Eva – diventerete come dei. Ora, che male c’è a diventare come dio? Dove sta la colpa? Perché non è legittimo diventare come Dio? Vuol dire entrare in una dimensione nella quale il problema del dolore, della sofferenza, del male e del negativo è risolto una volta per sempre. Diventare come dei non significa diventare onnipotenti e basta, significa andare al di là delle barriere che definiscono la nostra esistenza. E in generale tali barriere sono date dal rapporto tra benessere e malessere, tra positivo e negativo. E se c’è un’operazione divina che cerchiamo di mettere in atto nella nostra vita è proprio quella di superare il negativo, di eliminare le zone d’ombra, portare la luce dove c’è l’oscurità, cioè trasformare il negativo. Se questa è un’operazione divina, perché ci deve essere proibita? È la prima questione aperta rispetto al ‘mito’ del peccato originale. L’altra è che in seguito a quel peccato – si narra sempre nella Bibbia – siamo stati cacciati dal paradiso terrestre e la prima conseguenza è stata che Adamo ed Eva si scoprirono nudi.

Letto con i nostri occhi, ma anche con quelli di chi scriveva quel testo, penso, nudità significa sessualità. Uomo e donna: esattamente quelle due dimensioni che incontrandosi ricostituiscono l’unità originaria. Ogni uomo è in cerca della sua metà: è come spezzare una mela in due, ogni metà va in ricerca della sua metà complementare. È interessante perché la dinamica della nostra vita come uomini e come donne acquista un’incisività maggiore, visto che nella nostra vita uno dei temi fondamentali è proprio l’amore, la ricerca del partner, la sessualità. E per controllare la sessualità nella storia dell’umanità si sono inventate strutture incredibili: leggi, precetti, divieti. Tornare al peccato originale significa tornare all’innocenza, a una situazione originaria in cui abbiamo vissuto l’unità. Su questo sfondo il lavoro in terapia bioenergetica consiste appunto nel ricercare l’unità fra la mente e il corpo. Una delle conseguenze di questa storia culturale che si rifà al peccato originale, nella tradizione successiva giudaico-cristiana, è dunque la scissione tra mente e corpo, tra anima e corpo, tra spirito e materia. Questo è un po’ il dramma storico sul cui sfondo noi viviamo a livello personale il nostro dramma: la ricerca della ricomposizione, dell’unità.

Luciano Marchino ha usato un’altra espressione su cui vorrei soffermarmi: la bioenergetica è una via di ricerca spirituale per riottenere il contatto con se stessi. Siamo abituati a dare alla parola spirituale una valenza un po’ astratta, appunto sulla sfondo della scissione a più livelli tra anima e corpo. Lo spirituale è diventato una dimensione che non ha niente a che fare con il materiale, il corporeo. Responsabile di questa definitiva scissione nella cultura occidentale è stato dapprima l’orfismo, la religione misterica greca, che ha proposto una visione della vita come preparazione alla morte: tutto quello che succede nell’al di là è lo scopo fondamentale per dirigere quello che succede nell’al di qua. Vi ricordate il mito di Euridice, che dagli dei viene destinata agli Inferi? Il suo amatissimo sposo Orfeo, colui che con il suono della lira riusciva a incantare uomini e animali, ottiene il permesso di andarla a riprendere. A una condizione, però: che non si volti indietro a guardare l’amata mentre la conduce via dall’Ade. In realtà Orfeo non resiste ed Euridice scompare. Cosa c’è dietro a questa rappresentazione così affascinante, che poi si ripete in diversi miti e fiabe? C’è una sorta di ‘condizione minimale’ rispettando la quale l’avventura ha successo; mentre se la condizione non viene rispettata si torna alla situazione originaria del conflitto, della separazione. Questo ha a che fare con il rispetto di una regola generale, secondo la quale per arrivare a una conclusione bisogna sempre seguire un processo, delle procedure, ovvero delle tecniche che consentono di arrivare allo scopo.

bosch 1Dopo l’orfismo il grande personaggio che dà una definizione completa dal punto di vista filosofico e metafisico di questa scissione è Platone con la sua teoria dell’anima. In realtà egli ne propone due concezioni e nella prima la vede come opposta al corpo, per cui il corpo è soma, da sema, prigione, e l’anima deve cercare di liberarsi dal corpo per arrivare alla vita (è lo stesso processo dell’orfismo). Quando poi Platone cerca di individuare una struttura sociale adeguata a questo scopo, cioè la realizzazione dell’uscita dalla vita in senso ascetico, la propone come divisa in tre classi. Al comando ci sono i filosofi, che sono saggi e possiedono la conoscenza, in funzione di un potere che non è fine a se stesso ma è legato all’ascesi, alla liberazione della società; sotto stanno i guerrieri, cioè i custodi, i difensori, coloro insomma che sono deputati a esigere il rispetto delle regole; sotto ancora c’è la gran massa di quelli che producono, che lavorano, il proletariato in termini marxisti. A ognuna di queste classi corrisponde una caratteristica: per i filosofi è la saggezza, per i guerrieri è il coraggio, per i lavoratori la temperanza, tre parole che conosciamo dalle nostre esperienze di catechismo. La stessa cosa Platone la rappresenta attraverso il bellissimo mito della biga alata, il carro trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero, e guidata dall’auriga. Questi rappresenta il re filosofo, ovvero l’anima razionale, il cavallo bianco rappresenta il custode, colui che custodisce l’ideale ed è molto vicino all’auriga, il cavallo nero – colore emblematico – rappresenta il lavoratore che ha bisogno di essere temperato perché tutto dedito ai piaceri materiali del corpo. È la materia, il mondo coinvolto nelle passioni, gli istinti. Da notare che con questa raffigurazione Platone dice che l’anima è tripartita: non c’è l’anima contro il corpo, ma c’è l’anima come unità divisa al suo interno e in conflitto; torna così la scissione all’interno dell’anima.

Questa visione di Platone verrà ripresa da Plotino cinque secoli dopo, con la traduzione in chiave moderna, per allora, di questa visione platonica: all’inizio tutto era unito in un grande Uno, un grande uovo originario, poi per non si sa quale evento questa unità originaria si rompe e le cose si rovesciano all’esterno, come quando versiamo dell’acqua in un bicchiere e se è pieno comincia a traboccare. Plotino dice che le cose sono uscite dall’Uno per emanazione, non per creazione: per sovrabbondanza, come un bicchiere che trabocca. Poi precipitando degradano via via, per cui si forma una scala gerarchica degli esseri, dal più perfetto, l’Uno, al più imperfetto, la materia, in un processo di derivazione. Mentre noi nella vita cerchiamo di attuare l’altro processo, quello di riunificazione, di ritorno all’unità. L’umanità nel suo insieme secondo Plotino ha dunque questa grande missione, riportare le cose all’unità. La sua teoria dell’anima è estreamamente affascinante, perché è molto più radicata nel nostro contesto di quanto sia quella platonica.

bosch 2Da questo pensiero deriva quello che sarà il Cristianesimo, che prende concetti neoplatonici ma dà loro un senso più radicale: il responsabile di questo passaggio è sant’Agostino, filosofo molto interessante e contradditorio, per il quale l’anima è l’elemento prezioso, mentre il corpo è l’elemento da scartare. Sottolinea anche che la verità non va cercata fuori, ma dentro di noi: un grande insegnamento che era già stato di Socrate, maestro di Platone, il quale diceva, con una frase molto lapidaria, conosci te stesso.

Anche sant’Agostino dice che la verità sta nell’interno dell’uomo, cioè nell’anima: una grande conquista che resterà tale nei secoli successivi, anche se al fondo rimane la scissione di cui dicevamo. Se osserviamo invece altri filoni culturali e religiosi che provengono dall’Oriente, questa scissione non c’è. Non nello sciamanesimo, non nel taoismo, che parla appunto di procedure, non nello zen, non nella cabala ebraica, né tra i sufi, la corrente mistica dell’Islam. Vi si trova sempre questa visione: che il valore dell’uomo dipende dallo sviluppo del proprio essere fisico, della propria corporeità. Ma allora, che cos’è il corpo? Sembra semplice, eppure non lo è. Chi ha un corpo ha un corpo e dovrebbe sapere che cos’è: ha dei bisogni, occupa uno spazio, respira (o respira poco), fa delle cose, ha un’attività, può essere bello o brutto, sano o ammalato. Avendo un corpo è abbastanza automatico sapere che cos’è; ma sentire il corpo è diverso.

Chi pratica bioenergetica ne ha più esperienza, ma per quelli che sono nuovi suggerisco di fare un semplice esercizio, anche subito, da seduti. Mettiamo i piedi a terra, appoggiamo la schiena alla sedia, ben dritti, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il nostro corpo. In questi pochi secondi proviamo a chiederci quale parte del nostro corpo ha attirato la nostra attenzione. In quali parti ci identifichiamo con il nostro io? A quali parti del corpo ci riferiamo? Come stiamo respirando? Ci accorgiamo di avere dei piedi? E che sotto i piedi c’è il pavimento e questo appoggia sulla terra? E la terra appoggia gravitazionalmente in un sistema? Ecco dunque una piccola esperienza breve per sentire il corpo. Perché uno dei nostri problemi fondamentali è che abbiamo un’idea del nostro corpo, magari abbiamo letto anche dei trattati sul corpo – se siamo medici o insegnanti di ginnastica ne abbiamo forse letti parecchi, se siamo estetisti anche -, ma il punto di vista sul corpo in questi testi di teoria non è quello di sentire il corpo bensì di pensare il corpo. Sentire il corpo implica sentire l’appoggio dei piedi a terra: prima di tutto la parte bassa del corpo, dai piedi alle gambe, la pelvi e il bacino. La nostra parte animale, più naturale, dove ci sono le funzioni che condividiamo con gli animali: la locomozione, la defecazione e la sessualità.

bosch 3Avere i piedi per terra (in bioenergetica si parla di grounding o radicamento) è il fondamento. Avete presente la frase ‘ragionare con i piedi’, usata di solito in senso spregiativo? In realtà in bioenergetica l’applichiamo in pieno, dobbiamo pensare con i piedi. Perché se non sentiamo i piedi e le gambe dobbiamo per forza appoggiarci su qualcos’altro e in genere è la parte alta, la testa. Da come la gente cammina possiamo davvero conoscerla, e mentre camminiamo possiamo avere una percezione del nostro centro. Dove sta il nostro centro? Ho una paziente che deve dedicare almeno tre quarti del tempo in ogni seduta a camminare, a stare nei piedi, perché di suo cammina per aria, sulle punte: quando per la prima volta ha percepito i suoi talloni è rimasta impaurita, non si riconosceva. Per forza: aveva imparato che non doveva disturbare, non doveva nemmeno farsi sentire. Pensate ai bambini e immaginate di togliere loro quella grande esperienza che è produrre movimento e rumore: avrete dei bambini inibiti, praticamente morti. Ecco perché il lavoro sui piedi e sul grounding è così fondamentale.

In una classe di esercizi si comincia sempre con il lavoro sui piedi e sulle gambe, perché da lì poi partono altre possibilità. Dire piedi e gambe significa dire piante dei piedi e vedere se l’arco plantare è nella posizione corretta, se non è troppo rigido, se è arcuato per cui l’appoggio del piede avviene sull’esterno, oppure se è collassato e l’appoggio avviene verso l’interno. Tenere i piedi in un modo o nell’altro significa strutturare nella muscolatura delle gambe delle situazioni di stress che poi permangono e diventano la base sulla quale strutturiamo la nostra esperienza anche ad altri livelli. Caviglie, polpacci, ginocchia, coscie, anche: intendiamo tutta questa struttura, che sembra così semplice dal punto di vista anatomico ma in realtà è molto complessa e ha un’influenza enorme nella costruzione che facciamo del nostro io. Un io piantato sui piedi è un io più sicuro, un io piantato solo nella testa è un io insicuro, e basta poco per destabilizzarlo. Nelle arti orientali in genere la postura richiesta è quella eretta, con i piedi un po’ lontani e le ginocchia morbide, non bloccate, perché altrimenti impediscono all’energia di fluire.

Il nostro corpo è un sistema energetico, è un arco: l’energia parte dal suolo, attraversa il corpo salendo da dietro e si scarica o in alto verso il cielo o in basso, ma sempre in avanti, per cui se abbiamo delle radici solide possiamo usare un’energia molto più fluida e molto più morbida. Un cenno merita la pelvi, la pancia, dove abbiamo il pavimento pelvico, gli organi sessuali, i visceri e altri organi interni, una massa chiamata natiche e un utero, dal quale nasciamo e prendiamo l’impulso alla vita. Nasciamo da un grembo e torniamo a un altro grembo, la terra. Nella nostra vita siamo sempre alla ricerca di un grembo, di un posto dove possiamo stare bene. C’è un passo che sento di leggervi, di Alexander Lowen, tratto dal libro La depressione e il corpo, dove parla del grounding e della pancia (a pagina 33 dell’edizione italiana, ndr): “Secondo i giapponesi, se un uomo ha hara” – che è il centro del corpo, il suo baricentro, posto cinque centimetri sotto l’ombelico – “significa che è centrato. Significa anche che è bilanciato sia fisicamente che psicologicamente. Una persona equilibrata è calma, a suo agio, e finché rimane a quel modo i suoi movimenti sono senza sforzo e al tempo stesso magistrali. Lo hara è il segreto del tiro con l’arco zen perché chi possiede lo hara è sintonizzato attraverso il proprio centro vitale con tutte le forze del mondo esterno”.

Anch’io, quando ho letto quel libricino, Lo zen e il tiro con l’arco, ne sono stato affascinato: l’obiettivo viene colpito a occhi bendati. Perché l’obiettivo non è esterno ma interno. E ho un fremito ogni volta che leggo questo. “Così i suoi movimenti non sono voluti”, continua Lowen, “ma fluiscono naturalmente come risposta di tutto il suo essere a una determinata situazione. Ci si potrebbe chiedere: perché mai il ventre è tanto importante? La risposta è che si tratta della sede della vita. Ci si siede letteralmente nel proprio ventre e così attraverso di esso si entra in contatto con il pavimento pelvico, con gli organi sessuali e con le gambe. Se ci si tira in su nel torace o nella testa, si perde questo contatto essenziale. La direzione verso l’alto è verso la coscienza e l’ego. In una cultura che esagera tali valori, la posizione del corpo è con il ventre in dentro e con il petto in fuori”. Per la nostra visione estetica standard una persona ha un corpo bello se non si vede il ventre e quindi bisogna tirarlo dentro, ma questo significa mantenere una tensione cronica che a livello della vita fa proprio scoppiare il ventre, come quando stringo la cintura e la parte superiore sborda. Questa cintura pelvica che circonda il bacino in certe strutture impedisce il flusso dell’energia, ma soprattutto determina la formazione della pancetta in avanti, che non è legata a ciò che si mangia. Quindi ventre in dentro e petto in fuori è proprio il contrario di quello che noi cerchiamo di raggiungere.

E Lowen conclude così, e secondo me è molto bello: “Nella mitologia antica, il diaframma veniva paragonato alla superficie della terra. Tutto ciò che stava al di sopra della superficie era luce e pertanto consapevole. Sotto era l’oscurità che rappresentava l’inconscio. Tenendosi al di sopra del diaframma si separa la coscienza dalle profonde radici che essa ha nell’inconscio. L’importanza del ventre e dello hara è che solo se si sta nel proprio ventre, per quel che riguarda il sentire, si evitano le divisioni tra il conscio e l’inconscio, l’ego e il corpo, la personalità e il mondo. Hara rappresenta uno stato di integrazione o di unità della personalità a tutti i livelli della vita”.

 

L’esperienza personale che vi rimando riguarda la persona a me più cara, che era mia madre. Ho avuto con lei un conflitto, come tutti quanti noi, e siamo arrivati ai ferri corti. Ma a un certo punto mi sono accorto, grazie alla terapia, che questa persona che era mia madre non era così come pensavo. Quando io ho sentito la mia pancia in seguito a un’esperienza incredibile, in una seduta, ho sognato poi per qualche notte di mia madre, in un modo meraviglioso (non vi dico come perché non vorrei farvi invidia). Sono tornato a trovare mia madre, dato che abitavo a Milano già da un po’ e lei abitava fuori, e ci vedevamo una volta al mese circa, e come sono entrato in casa ho sentito di nuovo questa sensazione alla pancia di scioglimento incredibile. E lei mi dice: “sento qualcosa nella mia pancia”. Una cosa strana: mia madre non soffriva mai di nulla, era molto sana, eppure sentiva qualcosa nella pancia. Io ho avuto una commozione profonda e per la prima volta ho abbracciato mia madre, che si è lasciata abbracciare mentre di solito era sfuggevole, e in quel momento ho capito cosa voleva dire riconciliarsi con la nostra mamma. A quel punto avevo colto cosa era mio e cosa era suo e le famose proiezioni che ci riportano in vissuti molto problematici erano sparite. Perché avevo sentito la mia pancia.

E un’altra esperienza di cui parlava Luciano Marchino è che l’aver fede – parola abusata in contesti religiosi – non è credere in un dio, perché se la fede consiste in questo sono più i problemi che creiamo che quelli che risolviamo, dato che dovremmo poi pensare a come spiegare questo dio. Ora, spiegare dio è impossibile: la metafisica scolastica, quella ufficiale della chiesa cattolica, a un certo punto ha rinunciato, dicendo che dio è un mistero. Però c’è sempre l’altro rispetto a noi, anzi è l’assolutamente altro. Allora come faccio a raggiungere l’assolutamente altro? Un qualche modo ci deve essere. La fede, nel senso di fiducia, non è un atto della mente o del cuore, è un atto della pancia. Se avete provato qualche volta a sentire, di fronte a una persona, estranea o no non importa, come risuona la vostra pancia, potete veramente dedurre se vi fidate o meno di quella persona. Sentire con la pancia, con lo hara.

Concludo con il brano di Lowen: “Una persona dotata di hara è naturalmente una persona diretta dall’interno con tutte le qualità appropriate. In realtà lo hara rappresenta uno stato ancora superiore, uno stato di trascendenza nel quale un individuo, grazie alla piena comprensione e realizzazione della propria esistenza, si sente parte della grande Unità o Universale”. Come diceva Plotino. Una persona del genere ha fede non come credo, funzione della coscienza mentale, ma come convinzione profonda che sente nelle viscere. Solo una fede del genere ha un vero potere di sostegno. Questo aspetto ci fa comprendere che una vera fede non può essere predicata, ma ottenuta solo attraverso esperienze che arrivano in profondità ed evocano sensazioni viscerali. A quel punto chi ci sta accanto lo sente. Non serve comprendere, si sente.